Keep it in the ground

Ridurre drasticamente le emissioni di CO2 è imperativo e abbandonare un’economia ed un modello di vita legati a doppio filo ai combustibili fossili è una necessità non più rimandabile.Se i comportamenti individuali consapevoli (dal consumo alla mobilità, fino all’alimentazione) sono importanti, sanzionare aziende come ENI significa fare un passo in più, un passo decisivo e inevitabile.

La crisi climatica non si risolverà se ci limiteremo solamente a cambiare i nostri singoli stili di vita. La situazione attuale, infatti, è stata provocata da un modello economico ben preciso, quello neoliberalista, nel quale il profitto non è solo legato all’estrazione sfrenata, ingorda e avida di risorse naturali, ma anche al consumo ininterrotto e scellerato di fonti non rinnovabili.

Oggi questo paradigma economico sta mettendo a rischio l’intera biosfera.

“Keep it in the ground”, lasciamo le fonti fossili là dove sono, sottoterra, al riparo dalla bramosia delle compagnie petrolifere.

Perché il cambiamento climatico inverta la sua rotta, è necessario cambiare il sistema. Un sistema che si presenta come combinazione di colonialismo ed estrattivismo e in questo aspetto ENI non è seconda a nessuno.

Dal dopoguerra fino ai giorni nostri, questa multinazionale è presente in Libia, dove, è giusto ricordarlo, gli italiani si erano già macchiati di indicibili massacri nei primi decenni del ventesimo secolo. Quindi, non solo non abbiamo mai fatto i conti con il nostro passato in Libia, ma, in nome del profitto, abbiamo lasciato che ENI attingesse agli enormi giacimenti della regione, facendo affari d’oro con i governi autoritari della Libia, Gheddafi prima e chi lo ha sostituito oggi. Tali governi e le relative milizie hanno anche in massimo spregio i diritti umani, il che rende il business tra Eni e tali organizzazioni ancora più inaccettabile.

ENI è presente in molti paesi africani oltre la Libia, massicci infatti sono i suoi interessi in Congo e in Nigeria. In questi Peasi si macchia di veri e propri delitti ambientali come il gas-flaring, la pratica di bruciare in atmosfera (senza recupero) il gas naturale in eccesso estratto assieme al petrolio; la produzione di greggio a partire da sabbie bitumose, combustibili tra i più inquinanti al mondo (fonte: Fondazione Culturale Responsabilità Etica).

“Negli ultimi 50 anni, ci sono stati oltre diecimila sversamenti di petrolio nell’area del delta del Niger. In nessuno di questi casi, si è provveduto ad un’adeguata opera di bonifica ambientale”, così denuncia l’avvocato Godwin Ojo che rappresenta la comunità nigeriana degli ikebiri in una causa civile contro Eni. La causa fu avviata dopo uno sversamento di petrolio causato da una falla di un impianto della multinazionale. Quest’ultima tuttavia è ben tutelata, così precisa Ojo: “la compagnie che operano in Nigeria sono spesso coperte da uno status di totale impunità. Agiscono al di sopra delle nostre leggi nazionali e sono praticamente intoccabili” (fonte Environmental Rights Action)

Ma con quali mezzi ENI si procura clienti ed occasioni? Non è l’efficienza della macchina a convincere e nemmeno la puntualità delle cosiddette “compensazioni”, che sono spesso presentate in forma di erogazione di servizi sociali ed economici, promesse mai completamente elargite, come dimostrano le molte indagini di Ong indipendenti ( fonte: Campagna per la Riforma della Banca Mondiale).

Cosa c’è dietro le concessioni ad Eni? A giudicare dalla cronaca giudiziaria, Eni paga enormi tangenti ai politici locali per poter trivellare.

Ogni giorno questi territori e la gente che li abita vengono sfruttati da un unico grande dittatore: il denaro.

Come membri di Friday For Future vogliamo che si ponga fine a tutto questo: lo diciamo adesso e lo grideremo nelle piazze di tutto il mondo il 15 marzo: “KEEP IT IN THE GROUD!”.